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Schede Storiche - Campi Flegrei: il Ninfeo di Punta Epitaffio

Tra i risultati di maggior rilievo (1982) è l’individuazione, in prossimità del porto moderno, di un lungo canale navigabile con piccole imbarcazioni, che dall’antica linea di costa si addentrava per alcune centinaia di metri all’interno dell’area edificata.
Il porto militare (porto Julius) fu voluto da Agrippa nel 37 a. c. nei laghi di Lucrino ed Averno.
Baia, di gran moda per tutta l’età imperiale, si estendeva nella zona dove più accentuati sono stati gli effetti del bradisismo flegreo che, nell’ampio tratto di costa che va da Posillipo a Miseno, ha provocato la sommersione di decine di migliaia di metri quadrati di aree intensamente edificate in età romana.
Nel 1959 Nino Lamboglia ed Amedeo Maiuri dedicarono attenzione al problema di Baia sommersa ed avviarono una breve campagna di esplorazione sottomarina, riservando particolare interesse alla zona di Punta Epitaffio che chiude ad est che chiude ad est l’attuale Porto di Baia.
Il loro programma prevedeva l’elaborazione di una Carta Archeologica dei resti subacquei, realizzata perlustrando integralmente tutto il litorale compreso tra Baia e Pozzuoli, che allo scopo fu convenzionalmente diviso in grandi quadrati (m. 500 di lato), a loro volta divisi in quadrati più piccoli (metri 100 di lato).
A breve distanza da Punta Epitaffio, a circa 6 metri di profondità, fu individuato il tracciato di una strada lastricata, articolata in tre tratti, lunga alcune centinaia di metri. Alla strada si allineava un lungo porticato e le si affiancavano vari altri edifici. Fu anche avviata in quell’occasione un’intensa opera di perlustrazione dei fondali: essa portò alla scoperta dei resti di innumerevoli edifici romani che si inoltravano verso il largo per circa 400 metri, fino alla probabile linea di costa antica che era quindi sprofondata di ben 16 metri.
Nel 1969 un’inattesa scoperta a ridosso di Punta Epitaffio riportava l’attenzione sul dimenticato problema di Baia. Le forti mareggiate invernali avevano fatto affiorare dalla sabbia i contorni di un grande ambiente rettangolare a nicchie (il Ninfeo). Sul lato settentrionale, subito accanto alla roccia di punta Epitaffio, esso culminava con un’abside semicircolare, all’interno della quale spuntavano le sommità di due statue in piedi al loro posto.
Con uno scavo di fortuna, un gruppo di subacquei napoletani recuperò due statue virili in buono stato di conservazione, tranne che nelle parti superiori irreparabilmente sfigurate dall’attività dei litodomi.
Erano due protagonisti della scena Omerica del fatale inebriamento di Polifemo: da un lato Ulisse che porge la coppa piena di vino al ciclope, dall’altro uno dei compagni di avventure mentre versa vino da un otre pieno. All’interno delle due statue, erano alloggiati dei condotti di piombo che portavano acqua alla coppa di Ulisse ed all’otre del compagno: proprio la presenza di queste acque zampillanti contribuiva a caratterizzare l’edificio che le ospitava come un Ninfeo. Al completamento della scena mancava Polifemo.
Le operazioni di scavo si sono svolte nel biennio 1981-82.
Posto quasi a contatto con la base rocciosa di Punta Epitaffio, con circa sette metri di profondità interna, il Ninfeo è costituito da un grande ambiente rettangolare (18x9), culminante con un’ampia abside semicircolare.
Le pareti lunghe sono articolate in quattro nicchie rettangolari ciascuna, intervallate da lesene, precedute da due altre aperture analoghe che fungevano da ingressi laterali.
Tutt’intorno alle pareti del Ninfeo corre uno stretto canale ancora completamente rivestito di lastre di marmo bianco, mentre all’interno del piano centrale è ricavata una grande vasca.
Il rivestimento marmoreo dell’ambiente fu però quasi tutto sistematicamente asportato all’epoca dell’abbandono del Ninfeo e, spesso, si è riscontrata l’impronta delle lastre mancanti sulla calce delle pareti. In vari punti, al di sotto  della calce, sono comparsi anche i resti di un precedente rivestimento di mosaico parietale policromo, con tesserine di pasta vitrea multicolori alternate a conchiglie. È questo tipo di decorazione frequente nei Ninfei e nelle fontane romane, come pure è caratteristico di tali ambienti, costruiti a somiglianza delle grotte naturali il ricorso a rivestimenti di “finta roccia”, ottenuti ricoprendo le pareti con pezzi di formazione calcarea naturale.
Nel Ninfeo di Baia la “finta roccia” fodera l’interno delle nicchie e dell’abside, con evidente sforzo di ricostruzione ambientale dell’antro del Ciclope.
Nel corso dello scavo, nell’asportare un massiccio riempimento di materiali di scarico (detriti edilizi, rifiuti domestici come ceramiche ed anfore frantumate, residui di cibo), con i quali fu volutamente colmato il Ninfeo all’epoca del suo abbandono, sono state scoperte ben cinque statue che erano originariamente collocate nelle nicchie laterali. La prima ad essere rinvenuta raffigura Dioniso adolescente in grandezza naturale. La seconda è la statua ritratto di una bambina con ricca acconciatura dei capelli; costei era l’infelice figlia dell’Imperatore Claudio e di Messalina, andata in sposa a Nerone e poi da questo relegata e fatta uccidere nella piccola isola di Ventotene. Poco oltre, ai piedi della quarta nicchia, giaceva in pezzi un’altra statua di Dioniso giovane.
Dall’altro lato fu invece scoperta un’altra statua ritratto a grandezza naturale. Raffigura, su un tipo iconografico classico, una donna matura, acconciata con un prezioso diadema traforato, nella quale è riconosciuta l’immagine di Antonia Minore, figlia di Marco Antonio il triumviro e madre dell’Imperatore Claudio. La statua, datata agli anni 40 del I secolo d. c. , sosteneva nella mano sinistra un piccolo Eros alato, il dio dell’amore in frequente unione con Venere; ed in questo caso Antonia è rappresentata nelle sembianze di Venere genitrice (dalla quale si vantava di discendere la gens giulio-claudia).
La presenza di membri della famiglia imperiale tra le statue che decoravano le pareti laterali avvalorava l’ipotesi che il Ninfeo di Punta Epitaffio faceva parte del Palazzo Imperiale di Baia.
Prima del suo definitivo abbandono tra la fine del III e gli inizi del IV secolo d. c. , il Ninfeo fu frettolosamente spogliato dei materiali da costruzione (marmi e tubi di piombo) facilmente riutilizzabili altrove; in seguito, per breve tempo, continuò qualche forma di vita negli ambienti adiacenti di poco più elevati del Ninfeo e quindi non ancora raggiunti dal mare. Con il progredire del bradisismo tutta la zona fu invasa dalle acque ed ebbe luogo il crollo degli edifici.
Alla luce dei recenti scavi, sembra probabile che la fase finale del graduale inabissamento di Baia abbia avuto luogo tra il IV e la fine del VI secolo d. c.

La sala aveva la forma di un ninfeo triclinare.
“Un divano marmoreo a banchetto corre attorno ad una vasca, la cui acqua è ingegnosamente regolata in modo che sia sempre piena, ma non trabocchi mai. Gli antipasti ed i piatti più pesanti vengono posti sul bordo, i più leggeri vanno galleggiando in recipienti a forma di navicelle e di uccelli acquatici”.
Il fasto incredibile di questa sala, in cui l’Imperatore Claudio riceveva i suoi ospiti, consisteva nella sua decorazione scultorea.
Polifemo stava seduto al centro dell’abside, con la mano destra protesa verso la coppa che Ulisse gli porgeva da sinistra con tutte e due le braccia. Con la mano sinistra il ciclope reggeva il polso di un greco morto, di cui è stata trovata la mano.
L’intera scena è ripetuta in un rilievo antico, che non solo permette di immaginare la scultura perduta nel suo insieme, ma attesta anche che il grande gruppo marmoreo nell’abside della sala di Baia è la copia fedele di un famoso originale bronzeo di età ellenistica.
Il gruppo di Baia, copiato in scala 1:1, mostra però, rispetto all’originale, un interessante variazione nella disposizione delle figure.
Ulisse era accompagnato da un greco che portava l’otre contenente il vino con cui fu ubriacato Poliremo. Nell’originale di età ellenistica questa figura era posta accanto ad Ulisse ma leggermente più in alto, in modo tale da poter riempire il bicchiere di quest’ultimo. L’autore dell’originale aveva rappresentato il compagno con l’otre più piccolo di tutta una testa rispetto ad Ulisse, conferendo al gruppo un senso di spazio maggiore ed un effetto prospettico.
I copisti romani, invece, senza modificare la dimensione della figura del compagno, lo collocarono sul lato destro dell’abside, dando luogo ad una disposizione simmetrica del gruppo.
Non badarono, però, al fatto che così la figura del compagno doveva sembrare troppo piccola e non poteva più svolgere la sua funzione originaria: quella cioè di riempire il bicchiere tenuto da Ulisse, mentre ora il suo vino scorreva a terra.
Il significato del gruppo nell’abside si rivela solo a chi conosce i personaggi rappresentati dalle statue che ornavano le otto nicchie della sala. Fortunatamente proprio quelle che possiamo definire la statua-chiave per l’interpretazione del complesso di Baia è conservata per intero. Si tratta di una dea che porta sul palmo della mano sinistra la snella e giovanile figura del dio dell’amore.
Il dio, incrociando le gambe, mette un piede sul dorso dell’altro e si appoggia alla spalla della dea, la cui testa ritrae Antonia Minore, madre dell’Imperatore Claudio.
Dalle ricerche archeologiche è emerso che il tipo statuario classico usato per la statua-ritratto di Baia non rappresenta la dea dell’amore, bensì la dea Kore del famoso santuario di Eleusi.
L’Imperatore Claudio era molto legato al culto delle divinità elusine, tanto da far rappresentare sulle monete sua madre Antonia nelle vesti di Kore e sua nonna Livia in quelle di Demetra.
Con l’aggiunta dell’amore poggiato sulla mano sinistra, Antonia diventa una Venere genitrice.
Siccome Augusto era membro della gens Giulia e vantava la discendenza da Venere, Anchise, Enea, e poiché Antonia era sua nipote, essa rappresentava per il proprio figlio Claudio il nesso con la gens Giulia. Per il tramite di Antonia anche Claudio partecipava del sangue di Venere e della gens degli Eneadi, che conferiva la legittimazione al Principato.
Per sottolineare ulteriormente che egli, membro della gens Claudia, era anche discendente di Venere, l’imperatore fece rappresentare i suoi figli, Ottavia Claudia e Britannico, rispettivamente come Venere e come Amore che tiene in mano una farfalla, cioè una piccola Psiche.
Antonia si può riconoscere non solo dai tratti del volto ma anche grazie a due particolarità: il cerchio che porta nella chioma sotto il diadema ed i due riccioletti sulle tempie.
Poiché la statua di Antonia era collocata in una delle quattro nicchie della parete ovest, non è difficile indovinare chi rappresentano le altre statue.
Accanto ad Antonia non poteva mancare suo marito Druso, padre di Claudio. Non poteva mancare neanche il fondatore della dinastia, Augusto, che in seconde nozze aveva sposato Livia, madre di Druso e nonna di Claudio.
Nelle nicchie esterne erano posti i due uomini: Augusto con un mantello avvolto sui fianchi, il braccio sinistro alzato ed appoggiato sullo scettro, e Druso in corazza con il braccio destro sollevato ed appoggiato su una lancia.
Possiamo immaginare l’impressione che questo ambiente dovette esercitare sugli ospiti dell’Imperatore Claudio, i quali, portati da una barca a remi o da una zattera, entravano passando per il canale centrale in questo ninfeo triclinare.
La finta roccia, con cui erano ricoperte le pareti dell’abside, la volta e le nicchie delle pareti laterali, gli davano un aspetto di una grotta, appunto quella di Polifemo.
L’unica fonte di luce era costituita dal grande arco d’ingresso che si apriva sopra il canalone centrale, sul fondo di questo canale si sono trovati solo residui marini e sembra pertanto che esso avesse un collegamento diretto con il mare.
La luce penetrava nella sala triclinare anche attraverso l’acqua del canale, profondo due metri.
Filtrata dall’acqua marina, essa doveva creare un effetto non dissimile da quello della Grotta azzurra di Capri.
In tale luce, che si rifletteva sulle pareti ornate delle statue e sulla volta, l’impressione suscitata dal gruppo marmoreo dell’abside doveva essere ancora più intensa: Ulisse che si avvicina al gigante, il quale dopo aver ucciso un greco, tende la mano verso la coppa che l’intrepido eroe gli porge.
Davanti alla statua di Ulisse, che in questa luce fantastica poteva sembrare quasi mobile, era sdraiato su un divano l’Imperatore Claudio, accanto alla consorte Messalina.
Gli ospiti dovevano percepire l’intenzione dell’Imperatore, che con le statue della parete sinistra rappresentava i suoi antenati: il fondatore della dinastia Augusto, sposato in seconde nozze con Livia, madre di Druso, a sua volta sposato alla figlia della sorella di Augusto, Antonia, con cui aveva generato Claudio. Costui era presente in prima persona e, mediante le figure sul lato destro del ninfeo, intendeva sottolineare la speranza nel futuro della dinastia: i suoi figli Ottavia Claudia e Britannico, protetti ai due lati da altrettante immagini del dio del vino, che aveva offerto il mezzo di salvezza ad Ulisse ed offriva il vino ai suoi convitati.
Attraverso queste immagini gli ospiti potevano capire il messaggio dell’Imperatore: il legame così istituito con Augusto conferiva a Claudio, che giuridicamente non era un membro della gens Giulia, la legittimazione al Principato, ed al figlio Britannico la possibilità di ereditarlo.
Tale legittimazione, però, non risultava unicamente dalla comunanza di sangue con Venere, ma anche dalle virtù del Principe che erano uguali a quelle di Ulisse, e cioè la forza, il coraggio, la fantasia, l’astuzia, la perseveranza, la fedeltà.
Sappiamo da Seneca che l’Imperatore Claudio amava paragonarsi all’eroe greco Ulisse. Ma forse vi è ancora di più: raccogliendo alcune notizie da varie fonti possiamo avanzare l’ipotesi che la Gens Claudia, proveniente dal territorio di Tusculum, città fondata da Telefono, figlio di Ulisse e della maga Circe, venerasse in Ulisse il progenitore della propria stirpe, così come la gens Giulia si riconduceva ad Enea e Julo Ascanio. Solo tenendo conto di questo sfondo mitico-storico si può comprendere come mai un Imperatore romano trasformasse la sala triclinare della sua residenza estiva in un antrum cyclopis, cioè nella grotta del ciclope. Chi mai vorrebbe durante i pasti avere davanti a sé l’immagine di un cannibale che divora carne umana?
Il significato della grande messa in scena è dunque reso evidente dalla situazione storica del committente, l’Imperatore Claudio, la cui presenza è testimoniata dalla statua-ritratto della madre Antonia Augusta. Ma il significato storico e storico-artistico non si esaurisce qui: sappiamo che la maggior parte dei capolavori dell’arte greca ci è tramandata solo da copie di età romana. Ora, a Baia veniamo a conoscere, oltre al gruppo di Policleto, altri quattro capolavori dell’arte greca.
Non meno interessante, e certamente più affascinante, è la questione del prototipo dell’amore o Eros che poggia sulla mano della dea trasformata in Venere genitrice, il ritratto di Antonia Augusta. La statuetta assomiglia molto al Satiro in riposo di Prassitele.
Le copie datate alla prima età dell’Impero sono piuttosto rare. Tra di esse figura proprio l’Eros di Baia. Copia di un capolavoro greco del III secolo è invece la statua panneggiata che servì per il ritratto della principessa Ottavia Claudia. Poiché il gruppo di Polifemo deve essere datato, per il suo stile molto simile all’Ara di Pergamo, al II secolo a. c. , possediamo nel ninfeo di Baia una sequenza di copie di capolavori, finora sconosciuti, di ogni secolo dell’arte greca classica ed ellenistica.
Ma anche per la storia dell’arte romana le sculture di Baia, la cui esecuzione è datata all’anno 45, diventano di primaria importanza.
È la prima volta, nella storia dell’archeologia, che si può ricostruire completamente il programma di un ciclo statuario; che accanto ad un ciclo di ritratti della famiglia imperiale si trovano gruppi scultorei di soggetto mitologico; che, infine, si conosce l’originaria collocazione di tutte queste sculture.

 
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